Teatro Goldoni - Dal 11 Gennaio al 12 Gennaio 2018
Orario/i: 21
CTB Centro Teatrale Bresciano – Teatro de Gli Incamminati – Piccolo Teatro di Milano
MEDEA
di Euripide
traduzione Umberto Albini
regia Luca Ronconi ripresa da Daniele Salvo
scene Francesco Calcagnini riprese da Antonella Conte
costumi Jacques Reynaud riprese da Gianluca Sbicca
luci Sergio Rossi riprese da Cesare Agoni
con Franco Branciaroli
e con Alfonso Veneroso, Antonio Zanoletti, Tommaso Cardarelli, Livio Remuzzi, Elena Polic Greco, Elisabetta Scarano, Serena Mattace Raso, Arianna di Stefano, Francesca Mària, Odette Piscitelli, Alessandra Salamida, Raffaele Bisegna e Thomas Feliciani
Franco Branciaroli riallestisce la Medea diretta da Luca Ronconi, di cui fu protagonista straordinario e acclamato nel 1996.
Un doveroso omaggio al grande Maestro scomparso nel 2015 da uno degli artisti che ha lavorato con lui più a lungo e in maggiore vicinanza (basti ricordare spettacoli impressi nella memoria collettiva come La vita è sogno, Prometeo incatenato, Lolita), e un’occasione imperdibile di rivedere una delle pietre miliari della storia registica e interpretativa del secondo Novecento.
E lo spettacolo, che vide Branciaroli nei panni femminili di Medea, è una pietra miliare della storia del teatro nazionale. Infatti, se le letture in chiave psicologica di Medea portano a considerare questo personaggio il prototipo dell’eroina combattuta tra il rancore per il proprio uomo e l’amore per i propri figli, e le analisi sociologiche tendono a trasformare la principessa della Colchide in una sorta di precorritrice del movimento femminista, in realtà Medea è il prototipo del minaccioso impersonato da uno straniero, che approda in una terra che si vanta di avere il primato della civiltà. La sua esclusione è dovuta a paura di questa minaccia.
“Medea – leggiamo nelle note di regia di Ronconi – è una ‘minaccia’, una ‘minaccia’ che incombe imminente anche sul pubblico”. Per questo suo essere un misteriosa e mostruosa può essere interpretata da un uomo. La sua non è una tragedia della femminilità.
“Io non interpreto una donna, sono nei panni di un uomo che recita una parte femminile, è molto diverso. Medea è un mito: rappresenta la ferocia della forza distruttrice. Rimettiamoci nei panni del pubblico greco: vedendo la tragedia, saprà che arriverà ad Atene una forza che si accanisce sulle nuove generazioni, i suoi figli: ‘Medea dallo sguardo di toro’, come viene definita all’inizio. Lei è una smisurata, dotata di un potere sinistro. Che usa la femminilità come maschera, per commettere una serie mostruosa di delitti: non è un caso che la prima a cadere sia una donna, la regina, la nuova sposa di Giasone”.
Franco Branciaroli
Le parole di Luca Ronconi
Le letture in chiave psicologica di Medea portano a considerare questo personaggio il prototipo dell’eroina combattuta tra il rancore per il proprio uomo e l’amore per i propri figli; d’altra parte le analisi sociologiche tendono a trasformare la principessa della Colchide in una sorta di precorritrice del movimento femminista. Se si cerca di restituire alla tragedia il suo autentico significato ‘politico’, ci si accorge però che, per il pubblico ateniese dell’epoca di Euripide davanti al quale Medea fu rappresentata per la prima volta, lo snodo principale dell’azione doveva essere il dialogo tra Medea ed Egeo: in virtù dell’accordo stabilito tra i due personaggi, proprio Atene si prepara infatti a diventare teatro per la devastante passione di Medea, una volta che quest’ultima abbia portato a termine a Corinto il proprio disegno di vendetta. Al di fuori di ogni cedimento a suggestioni introspettive, totalmente estranee alla logica costruttiva delle dramatis personae della tragedia classica, Medea tende dunque a presentarsi non tanto come una donna lacerata dall’amore o come una femminista ante litteram, quanto piuttosto come una ‘minaccia’, e per di più come una ‘minaccia’ che incombe imminente sul pubblico. Sin dalla prima lettura dell’opera risulta evidente che l’inganno è la principale arma della principessa barbara: ella non raggira soltanto Creonte, Giasone ed Egeo, ma cela i propri intenti anche al coro svelando solo all’ultimo il proprio segreto proposito di uccidere i figli avuti da Giasone. L’asse strutturale portante dell’architettura tragica – e cioè il rapporto tra coro ed eroe – è dunque inquinato sin dall’inizio da una perversa arte dissimulatoria: Medea riesce a guadagnarsi la complicità delle ‘amiche’ coreute occultando i propri reali progetti dietro le sue magniloquenti difese del sesso femminile. La scelta di un interprete maschile come Franco Branciaroli per il ruolo di Medea consente di tentare un’approssimazione all’oggettività della tragedia. Spostando il baricentro del dramma dal rapporto Medea-Giasone a quello Medea-coro e sottraendo parallelamente il testo alle interpretazioni ‘psicologiche’ e socialmente ‘rivoluzionarie’, Medea svela infatti la propria autentica identità di maschera impenetrabile, figura di un’irriducibile alterità pronta a pietrificare, come una nuova Medusa, che cerchi di decifrare il suo segreto. Recuperando la prospettiva di Euripide, che sin dal titolo opta per il punto di vista della protagonista a scapito di quello del coro, l’ossimoro di una Medea-uomo traduce scenicamente l’ambiguo statuto del ‘personaggio’: il pubblico vede l’enigma nefasto che al coro è nascosto. Sul piano della ‘ricostruzione’ filologica occorre poi rilevare che, considerati in prospettiva storica, i valori sui quali Medea costruisce il proprio agire sono eminentemente maschili: nella cultura greca del V secolo avanti Cristo la ‘fama’ che preoccupa l’eroina appartiene infatti all’universo etico dell’uomo. Nel contesto della civiltà spettacolare in cui nacque la tragedia, la credibilità di Medea era dunque intrinsecamente connessa al fatto che il personaggio fosse interpretato da un attore-uomo. […] L’alterità di Medea non è dunque puramente geografica, ma essenzialmente ‘storica’: il personaggio nasce in un mondo ancora popolato da certi dei e si trova esiliato in una cultura nella quale vigono interessi e convenzioni che hanno decretato il tramonto dei valori tradizionali. Il terribile stretto dell’Ellesponto che Medea ha superato a seguito degli Argonauti non è solo un luogo geografico, ma è una metafora di una frattura storica, di una svolta epocale. La percezione di un passaggio a una cultura ‘geograficamente’, diversa è molto più forte all’interno del dramma nei due personaggi che si fronteggiano della Nutrice e del Pedagogo: nella tragedia si parla in effetti molto dell’approdo a un paese diverso dalla propria patria, ma questo problema è portato più dalle figure al seguito di Medea – Nutrice e Pedagogo appunto – che non dalla principessa. Medea avverte come una colpa l’aver abbandonato il paese dei padri e si sente l’artefice dello sterminio di alcuni valori antichi. Nel momento in cui dichiara al Sole che ucciderà i propri figli, l’eroina parla anche di una propria colpa: la sua presunta vendetta amorosa si converte cosi in un sacrificio rituale. Con la perdita dei figli Giasone paga il prezzo non tanto per il tradimento amoroso da lui consumato ai danni di Medea, quanto per l’infrazione del giuramento che lo aveva legato alla principessa barbara; per Medea invece l’assassinio delle proprie creature è il sacrificio espiatorio per aver ucciso i valori antichi accettando di sposare un greco. Comunque lo si voglia vedere, il significato rituale del crimine di Medea riporta appieno la tragedia al suo ambito tragico.